La storia dei trabocchi

Sulle origini sono state fatte varie ipotesi. Sia per il nome, che si presume sia declinato alle varie esperienze geografiche (Travocche, Trabucche, Traboucche, Trabbauche), italianizzata prettamente dialettale, forse derivante dal latino «Trabs» (cfr. legno, albero, casa), risalenti al XVIII-XIX sec., che può essere ricondotto alla pesca con la nassa, uno strumento che solleva e abbassa un meccanismo composto da due antenne divergenti posizionate a prua di una imbarcazione per la pesca di cefali. Sia per le popolazioni, che si ipotizza avviarono quella che a tutti gli effetti può essere considerata una continua e secolare innovazione di processo. I racconti vogliono che le persecuzioni ebraiche, obbligarono le popolazioni provenienti dal nord Europa (Francia e Germania) a  rifugiarsi sulle selvaggie coste abruzzesi.

Una macchina da pesca le cui origini si presume siano del XVII secolo, ma che solo nel “Trionfo della morte”, romanzo del 1894, di Gabriele D’Annunzio, trova le prime descrizioni:


Libro Terzo:

"Dall’estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli, si protendeva un Trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale."

Libro Quinto, paragrafo secondo:
"Proteso dagli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti il Trabocco aveva un aspetto formidabile. Per mezzo all’intrico delle travi e dei cordami apparivano i pescatori chini verso le acque, fissi, immobili come bronzi. E pesava su le loro tragiche vite l’incanto mortale."

Libro Quinto:
"I figliuoli si accinsero a muovere l’argano. Per gli interstizii dell’assito si vedeva brillare e spumare l’onda. In un angolo della piattaforma sorgeva una capanna bassa, col tetto di paglia, spiovente, il cui vertice era difeso da una fila di tegoli rossi e ornato d’un toppo di quercia scolpito in forma d’una testa bovina, con infisse due grandi corna – contro il maleficio. Altri talismani pendevano dal tetto, commisti a certi dischi di legno su cui erano fermati con pece frammenti di specchio rotondi come occhi; e un fascio di quadridenti arrugginiti giaceva davanti all’apertura angusta. A destra e a sinistra sorgevano dalla scogliera le due maggiori antenne verticali, sostenute alla base da piuoli di tutte le grossezze, che s’intersecavano, s’intralciavano congiunti tra di loro per mezzo di chiodi enormi, stretti da fili di ferro e funi, rinforzati con mille ingegni contro le ire del mare. Due altre catene, orizzontali, tagliavano in croce quelle e si protendevano come bompressi, di là dalla scogliera, su l’acqua profonda e pescosa. Alle estremità forcute delle quattro antenne pendevano le carrucole con i canapi corrispondenti agli angoli della rete quadrata. Altri canapi passavano per le carrucole in cima a travi minori; fin negli scogli più lontani eran conficcati pali a sostegno de cordami di rinforzo; innumerevoli assicelle erano inchiodate su per i tronchi a confortarne i punti deboli. La lunga e pertinace lotta contro la furia e l’insidia del flutto pareva scritta su la gran cassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quelli ordigni. La macchina pareva vivere d’una vita propria, avere un’aria e un’effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e tutti i suoi nocchi, rivelava tutte le particolarità resistenti della sua struttura, si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce, acquistava un carattere e una significazione cui la vecchiaia e la sofferenza avesser compiuta la loro opera crudele. L’argano strideva girando per l’impulso delle quattro leve; e tutta la macchina tremava e scricchiolava allo sforzo, la vasta rete emergendo a poco a poco su dalla profondità verde con un luccichio aurino."

Le testimonianze che ci sono state tramandate, iniziano a trovare certezza durante il ‘900, per la presenza di racconti orali e scritti e la scoperta della fotografia, che consentono di comprendere l’evoluzione delle macchine da pesca.

Interessante è la presenza di cognomi presenti attualmente sulla costa dei trabocchi, che provengono da quegli sbarchi che sono frutto dei soprannomi, trasformati negli attuali. Ad esempio la comunità proveniente dalla Germania, creando "confusione, scompiglio",  venivano chiamati come "wirr" e in seguito all’evoluzione fonetica, diventerà l’attuale "Virì" o "Verì" che ritroviamo nei cognomi degli abitanti dei comuni della costa e di San Vito in particolare. Nello stesso periodo un altra comunità di tessitori, cardatori, funai, si insediò in un sito adiacente: gli Annecchini. Un cognome che si ritrova a Ortona. Si presume che queste popolazioni, utilizzarono le loro capacità di falegnami, fabbri e cordai, per costruire queste palafitte che garantivano di pescare a chi non aveva dimestichezza con il mare e non era un abile nuotatore.
Realizzato da NEAMEDIA snc