La pesca con la nicossa

Al mattino successivo Domenico e Benito finirono di disarmare le reti che avevano abbandonato la settimana prima. Alla prima settimana di pioggia le avrebbero dovute riarmare per tenerle pronte per ogni evenienza. L’occasione non si fece attendere perché il giorno dopo pioveva dalla mattina ed al gruppo si aggiunse anche Fausto che diede una mano aiutando tutti, con i rotoli di panno, con le spolette che riempiva, con il fascio di maglioni e mettendo nei sacchi le reti già pronte;  aveva rivisitato anche tutti i segnali e gli ancorotti selezionandoli secondo la grandezza e la lunghezza dei galleggianti. Questi erano costituiti dalle "zucche a fiaschetto,” che in campagna, una volta essiccate e svuotate venivano usate come imbuti, in mare invece esse avevano la funzione di galleggianti e venivano vestite di rete affinché resistessero senza rompersi. Insomma quel tipo di zucca, che pur era buona, nasceva per non essere destinata all'alimentazione.

Avere le attrezzature pronte e a disposizione significava mettersi sui blocchi di partenza pronti a scattare prima degli altri, perciò era difficile trovare qualche ciurma libera nelle cantine dove si viveva un'aria molto più rilassata e passiva. La luna crescente usciva dopo le undici e poi per i giorni a seguire avrebbe illuminato troppo la notte, quindi la sera approfittarono per andare a fare un’ultima calata con le reti a gara. Antonio andò sottovento, tra punta Moro e l'aspero dei Ripari. La serata era tranquilla, fin troppo, e faceva forse troppo freddo.
Il segnale della testata delle reti appariva e spariva con l'andamento delle onde mentre Antonio manovrava con i remi per tenere le reti disposte normalmente alla costa e facendo in modo che non si attestassero troppo. Nonostante il buio fosse completo. si intravedeva la corda dei galleggianti più prossimi alla barca. Due ore dopo salparono, la pesca era andata proprio male, si dovettero accontentare di qualche corvino, qualche mormora e un mezzo cassone di cefali. Prima delle dieci erano già all'ormeggio. Nasosecco stava già sbarcando le reti e Domenico arrivò subito dopo e fece lo stesso. A tutti era andata male: come si suoleva dire, non avevano buscato neanche per le sigarette. Si divisero il pescato e ciascuno torno a casa deluso, ma non più di tanto perché "Mal comune mezzo gaudio".

Al mattino seguente il freddo si fece pungente e quindi decisero di attrezzarsi per un tipo di pesca che potesse dare risultati migliori. Antonio, come era suo desiderio, preparo la barca per pescare con la nicossa. Oltre ad Antonio Tollo chiamo anche Lesandro.
Insieme andarono a prendere le antenne nel magazzino di Tommaso col quale in precedenza aveva preso accordi, imbarcarono il tutto nella barca e la armarono per la pesca. Lesandro si preoccupò di andare a prendere la ghiaia da mettere nel sacco di rete ai piedi della nicossa. Dovette fare due viaggi con la carriola, e con il bugliolo riempì il sacco posato sul pagliolato a prua del bancale.
Armarono la rete fra le aste della nicossa, poi legarono le aste fra di loro facendo in modo che restassero divaricate e formassero un angolo di trenta gradi, quindi fu la volta di articolare la legatura delle aste fra l'asta di prua e i mangoli anteriori.
Prontamente sollevarono le antenne mostrando la rete che col suo imbando era destinato a contenere i branchi di cefali che si raggrumavano per il freddo e si riparavano sorto le pareti di qualche scoglio o all’interno della banchina. Poi tirarono più volte una cima fra i due terminali posteriori delle antenne in modo che il tutto restasse serrato, quindi posero sopra il sacco con la ghiaia e ce lo assicurarono saldamente. Antonio sollevò più volte il sacco di ghiaia controllando che la forca anteriore raggiungesse l'acqua quando le pietre erano all'altezza del bacino. Tutto funzionava perfettamente.

Erano pronti.
Domenico con Benito ed Ettore passarono invece le giornate a portare a bordo e a  preparare le reti per le sarachette, poi portarono i grandi cavalletti di legno dove solitamente scendevano ad asciugare le reti sul moletto degli inglesi (così chiamato perche adoperato dagli alleati durante la liberazione di Ortona) perché in quella posizione sarebbero sbarcati e avrebbero eseguito l'operazione di recuperare il pesce dalle reti.
Antonio con i suoi lasciarono l'ormeggio alle sei del pomeriggio quando era già quasi notte; vogarono verso la seconda rottura del porto; la barca sembrava un trabocco ambulante, le antenne dondolavano con la barca rendendola meno stabile. Antonio si era seduto sulla poppa facendo in modo che la barca mantenesse più possibile una posizione orizzontale. Il vento era leggero e da ponente, il mare era calmo, c'era solo una debole risacca da greco.

Non senza difficoltà attraversarono la rottura del porto e guadagnarono il largo. Voleva fare la prima mano sorto lo Scoglio della Mazza. Lo scoglio era così chiamato da quando era stato distrutto il trabocco e c’era rimasto solo un moncone dei quattro piedi originari. Sotto quello scoglio (da ragazzo vi aveva raccolto tante cozze), per greco c'era un'ansa naturale che Antonio conosceva a menadito e immaginava che in quello spazio ci si fossero riparati i cefali.
Dispose quindi per portarsi sopravento allo scoglio e quando lo vide fra le antenne ordinò di avvicinarsi. Dovevano vogare tenendo i remi in acqua in una specie di "scia-voga" che consentisse alla barca di avvicinarsi alla svelta, ma che consentisse ugualmente di tornare indietro (sciare) in fretta. “Pronti!'”.
Lasciò la poppa e si riportò accanto ai remi. partì un altro ordine secco "Vira!". Stavolta lasciò i remi e continuarono ad alzare il sacco con la ghiaia prima ad altezza di bacino e poi ad altezza d'uomo. Le antenne inforcarono il mare frenando violentemente la corsa della barca, ancora un ordine perentorio: "Voga!" che il Tollese eseguì con prontezza.
Si sentirono le antenne che urtavano lo scoglio spostando la barca un po' lateralmente, poi "Leva" e mentre Antonio Tollo sciava e vogava indietro, loro abbassarono con uno sforzo rilevante di nuovo il sacco con la ghiaia sul paiolato. La rete fra le antenne mostrò una pescata piuttosto interessante: almeno una cassetta di cefali fu raccolta con la vuolica e deposta sul paiolato. Un'ombrina che era finita insieme ai cefali fu messa da parte. Si spostarono, facendo un'altra mano allo scoglio della Ritorna, poi ancora al Giardinetto e quindi, molto più a riva, sotto il Castello. Quando decisero di rientrare, avevano raggranellato quattro casse di cefali e qualche altro pesce tra cui due ombrine e un tordo.
Arrivarono all'ormeggio che stava passando il treno delle nove.
Rimisero a posto tutto, portarono il pesce al magazzino, vi misero sopra un po' di ghiaccio, lo coprirono e andarono a casa.
Racconto tratto dal libro La mortella e la mentuccia. Storie di pesca e pescatori, di Carlo Boromeo (Edizioni Menabò, Ortona ISBN 978-88-95535-34-0).
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