La pesca della cannizzata

Mentre le giornate, ormai lunghissime, diventavano sempre più calde, la cannizzata assumeva per la pesca locale funzione antagonista a quella delle lampare. Le ciurme coalizzate lavoravano alacremente per avere la rete al massimo dell'efficienza. Venivano cambiate le canne che non davano più affidamento, veniva passato ogni palmo di rete affinché fosse sicuro, le barche venivano ripitturate e sul fondo, sull'antivegetativa, qualcuno spalmava anche delle foglie di cactus che raccoglieva sulla collina del castello:si diceva che rendessero la barca più scivolosa sull’acqua. Anche portare le canonizzate dal magazzino alle barche era un'avventura. Le canne erano lunghe più di quattro metri e dovevano essere conservate asciutte. Le canne dovevano essere integre, dritte e leggere oltre che della stessa dimensione. Venivano raccolte al momento giusto, dopo che erano sfiorite (cioè si era seccato il fiocco centrale in cima alla canna),
poi venivano poste ad asciugare generalmente sotto una tettoia in ambiente ventilato, venivano ripuliti tutti i nodi e levigati in modo che non avessero inneschi di rottura o punti che potessero impigliarsi nella rete. Le canne, prima di essere acquistate per armarle nella rete, venivano ascoltate per verificare che, battendole l'una sull'altra, facessero un rumore secco e argentino mai sordo. La cannizzata veniva riposta armata sempre su dei bracci capaci di sostenerla, facendo in modo che non si incurvasse e si mantenesse arieggiata, scostata dal muro e dal pavimento. Veniva portata in barca in due pezzi di eguale misura. Ognuno dei due pezzi era composto da un certo numero di canne unite fra di loro da un panno di rete di altezza corrispondente alle canne che erano fissate a circa un metro l'una dall'altra. Sia dalla parte più sottile delle canne che da quella più spessa veniva armato un cordino che le distanziasse correttamente l'una dall'altra e facesse in modo, lasciando la rete leggermente in bando, di rispondere all'operazione di tesatura durante la cala. Sulle testate più consistenti delle canne e per tutta la lunghezza del panno era poi armata una rete tramaglio che era alta circa quattro metri e aveva il compito di toccare o almeno avvicinarsi al fondo con la corda dei piombi. Ne scaturiva che la rete si articolasse in una parte verticale di quattro metri ed una orizzontale che più o meno aveva le stesse misure ed era sorretta e mantenuta in tensione dalle canne che galleggiavano nell'acqua.

La cannizzata si pescava con due barche, con una pariglia di quattro remi ciascuna. Sulla poppa di ciascuna barca era armato un pulpito di legno sul quale veniva adagiato ed assicurato un telone che debordasse dal pulpito verso la poppa fin sulla superficie del mare.
Sul pulpito venivano raccolte le canne collegate dal panno mentre il tramaglio relativo e collegato veniva adagiato (sempre raccolto) su banco sottopulpito armato fra parte del bancale di poppa e la murata della poppa stessa, coperto anch’esso da un pennone che dalla murata superava la falchetta e giungeva fino all’acqua. Questi impianti erano tutti rimovibili e venivano quindi fissati solo in caso di attività. Le barche venivano poste una di poppa all’altra e venivano collegate fra di loro dalla rete orizzontale tramata sulle canne e dal tramaglio verticale che lo completava. per sicurezza, le barche erano legate con due monconi di cime che collegavano i due mangoli corrispondenti delle barche.
In quei giorni Domenico aveva già rinverdito la mortella nelle nasse mettendoci qualche altro rametto ciascuna, ma la pesca non aveva dato comunque grandi risultati; solo quelle due nasse dentro il porto, nelle quali aveva con accortezza e sistematicità posto delle sarde schiacciate, stavano dando qualcosa. Antonio con il rezzaglio si limitava a riportare un po’ di garze d’oro ma nulla di più. Erano stati abituati a subire il momento del cambiamento, anche stavolta fu così.
Parlarono fra di loro e decisero di andare al mattino seguente a provare con la cannizzata. Chiamarono Antonio Tollo, Ettore, Benito e Lesandro. Fu avvisato anche Fausto in caso qualcuno mancasse all’appuntamento che fu fissato per le cinque. Furono tutti i presenti, anche Fausto, che s’imbarcò sulla barca di Domenico. Le barche si mossero verso il centro del porto, sembravano due cani che dopo l’accoppiamento non riuscivano a districarsi. Il sole cominciò ad alzarsi su quella superficie argentea increspata da una leggera brezza di terra scrutata attentamente da quattordici occhi che non lasciavano passare inosservato un semplice movimento, una foglia che galleggiasse e interrompesse l’andamento continuo del tremolio del mare. Passarono al traverso del fosso di San Rocco mentre Nasosecco, che aveva fatto la nottata con le reti a galla, stava rientrando verso l’ormeggio. Le sigarette accese vivevano la stessa loro animazione,a andavano e venivano senza un’apparente armonia.

Andarono ancora per una decina di metri quando Lesandro disse: "Salta a greco". Si voltarono tutti sulla sinistra, verso il molo nord. Fecero solo in tempo ad apprezzare, ad un centinaio di metri, i cerchi che nell'acqua allargandosi si spensero rapidamente assorbiti dall’increspatura. I cefali che saltavano fuori dall'acqua rappresentavano la testimonianza che sotto di loro c'era un possibile branco da catturare. Bisognava considerare il tipo di salto, la frequenza con la quale si verificava, la direzione e se ricadendo causavano altri movimenti intorno. Erano tutti questi degli elementi atti a valutare la consistenza, la posizione e la direzione del branco. Queste valutazioni erano, peraltro, riservate ad Antonio, che poteva sbagliare, ma non poteva essere contraddetto. Ci fu un salto ancora più a levante, questa volta osservato coralmente. Antonio disse di virare un poco a sinistra e di portarsi sopravento, a tramontana della posizione in cui aveva osservato il movimento.
Il silenzio era d'obbligo. Si sentiva solo lo sciacquio dei remi e qualche tintinnio delle canne che si toccavano fra di loro. Per garbino si intravidero diverse schiene a galla, poi ancora un salto indirizzato proprio verso di loro. Domenico, sulla barca che seguiva era in piedi, con un piede sulla murata di poppa a dritta e l'altro sul pulpito dove erano appoggiate le canne. Si abbassò e sciolse il legame tra le due barche. Erano nella posizione giusta. Ci fu ancora uno sbalacchio evidente una ventina di metri più a ponente di dove erano stati osservati i primi. Antonio si fece il segno della croce e disse: "Tonne tonne (Tondo tondo)".
Era questo il segnale. Le barche partirono allontanandosi rapidamente tra di loro una per scirocco, l'altra per maestrale. Le canne andavano in mare con il crepitio di una mitragliatrice. "Tonne tonne" urlò Antonio dalla barca che andava adesso verso garbino "Tonne tonne" urlò Domenico che intanto aveva fatto una semicurva verso ponente. Fausto su una barca e Domenico sull'altra erano velocissimi ad accompagnare in mare la parte di tramaglio verticale che era stato raccolto sull'apposito bancale laterale della barca.
Bisognava fare solo in modo che non si ingarbugliasse. Le barche, che ad ogni colpo di remi scattavano singhiozzando sull'acqua, adesso si vedevano fra di loro quasi di fronte. "Tonne tonne" ripeterono insieme Domenico ed Antonio. I vogatori in piedi, impostati, possenti, adesso potevano vedersi. Le barche, che sembravano dovessero scontrarsi violentemente di prua l'una con l’altra, si passarono invece a fianco, mentre la voce di Antonio tuonò: "Leva!".
I remi furono filati di fianco, la rete con il suo terminale fu lanciata anch'essa sull'acqua. Quando la calata era ben fatta il cerchio si chiudeva perfettamente e i due lati della rete si accavallavano solo per qualche metro. Mentre una delle due barche stava dentro il cerchio, l'altra si posizionava fuori.
La calata si appalesò precisa, la ciurma era affiatata e allenata. L'avevano fatto tante volte l'anno precedente, ma finché non videro ultimata la loro opera d'arte nessuno si sentiva tranquillo. Le canne adesso dondolavano sull'acqua mantenendo stesa la rete a galla.

Domenico, che era sulla barca interna, prese lo strombatore che serviva a fare un grande rumore e ordino a Benito di vogare . La barca prese a girare e ad ogni vogata di Benito, Domenico affondava con violenza lo strombatore verticalmente nell'acqua producendo un tonfo sordo destinato a spaventare i pesci. Lo recuperava quasi orizzontalmente sul fianco della barca che andava e lo rituffava verticalmente con regolarità meccanica quasi volesse, con il tonfo, dare il tempo alla vogata. Al terzo colpo dello strombatore il primo cefalo saltò rimanendo tra le canne. Poi si vide un altro gruppetto di cefali che correvano in superficie e in tondo nella rete fino a quando non decisero di saltare. Fu un crescendo. I pesci saltavano verso l'esterno un po' dappertutto e finivano sulle canne dove rimanevano ingarbugliati continuando a nuotare. Mentre Benito vogava, gli altri battevano i piedi sulla barca, sul paiolaro, sulla poppa: ogni cosa che facesse rumore veniva usata. Antonio si lamentò perché Lesandro, battendo col remo sul mangolo, poteva fare danno rovinandogli la barca. La scena del salto dei cefali era qualcosa di speciale che faceva esaltare Antonio, ma nel contempo era cruda e violenta. I pesci che rimanevano presi sulla parte verticale della rete non si vedevano, perciò non avevano lo stesso impatto di quelli catturati in superficie nell'agile tentativo di fuga. Addirittura qualche pesce riusciva a fuggire rimbalzando come un rimpiattino fa le canne e qualche altro saltava dall'esterno verso l'interno rimanendo catturato. Il tutto avveniva con intensità in tutte le direzioni, era un brulicare di luccichii argentei che il sole radente amplificava. Continuarono a far rumore con lo strombatore fino a quando non si interruppe la intensità e la continuità dei salti, poi, quando furono tranquilli che non ci sarebbe stata una ulteriore attività , decisero di salpare. Le barche si riportarono in posizione e cominciarono a imbarcare la rete. Le tre persone che erano in ciascuna barca venivano impiegate, durante questa fase, mantenendone una ai remi, una a salpare la parte con le canne e l'altra a salpare il tramaglio verticale raccogliendolo in modo che fosse pronto per la pescata successiva. Il pesce veniva sbrogliato con mestiere e buttato nelle cassette sulla sentina. Fausto, che faceva un po' il Jolly della situazione, aveva recuperato il sacco del ghiaccio da sotto lo stanzino di poppa e lo disponeva mano a mano un poco nella cassetta del pesce, quindi copriva la cassetta ultimata con un panno e ne preparava un'altra.
L'operazione di salpamento duro quasi un' ora. Presero cefali in abbondanza, per la maggior parte garze d'oro. Sulla parete verticale presero molti carrini dalla schiena gialla. A salpamento concluso, le canne erano tornate a bordo ben allineate di traverso sul pulpito di poppa. Le pareti erano raccolte sui bancali laterali, le barche riprendevano la posizione iniziale pronte a muoversi verso la nuova zona di pesca. Della pescata e del cerchio perfetto non rimaneva nulla, solo uno strato di squame finito sul paiolato.

Antonio fece cenno di dirigere verso il centro del porto dove gli era sembrato di vedere dei movimenti. Avevano preso quasi tre cassette ciascuno di cefali e una di carrini ed altro. Si spostarono verso il molo nord. Il sole intanto era salito, l'aria si era riscaldata, e quindi si tolsero la blusa e la camicia pesante. Durante lo spostamento approfittarono per fare colazione, ciascuno con quello portato, un sorso di vino, poi l'ennesima sigaretta. Avanzarono come il gatto quando va a caccia, con gli occhi sempre fissi sul mare a cercare un qualsiasi movimento che tradisse la presenza dei pesci.
Fecero la seconda mano alle dieci e anche questa andò bene: presero ancora cinque cassette di cefali e quindi a mezzogiorno erano pronti per una nuova calata che fecero proprio in mezzo all'imboccatura.
Questa volta, forse perché l'acqua era un po' troppo alta, non fu una pescata redditizia: presero solo due cassette di cefali e quindi decisero di rientrare. Ormeggiare le barche in assetto di pesca per la canonizzata era sempre un po' difficile, ma alla fine riuscirono a trovare lo spazio necessario. Sbarcarono il pesce,si divisero le due cassette di misto e si diedero l'appuntamento alle cinque del mattino seguente. Antonio contrattò e vendette il pesce sul posto, poi divise anche il ricavato dando a ciascuno la parte spettante. Dopo tanto tempo avere un gruzzolo di soldi in mano era proprio una cosa bella. Ognuno, soddisfatto, lo ricontò destinandolo, nella mente, già alla bisogna. Qualcuno doveva portarlo a donna Grazia, qualche altro ne aveva bisogno per saldare l'acquisto delle reti, altri per l'affitto di casa. Tutti avevano aspettato questa occasione con ansia. Se la pesca andava per il meglio erano tutti a trarne vantaggio, dai fornitori alle famiglie, dalla cantina al cantiere, e quindi tutti tifavano per loro e si complimentavano per i risultati. ognuno, anche se solo marginalmente, si sentiva attore del successo e, ne era fiero.

Intanto con la bava di maestrale arrivava il periodo più bello dell'anno e tutti erano felici e bendisposti. Le giornate lunghissime, i fiori, il verde intenso, e soprattutto le bianche distese di fiori di acacia e la corallina spiaggata dalla bassa marea spandevano un profumo che si sentiva dappertutto. Le macchie di giallo intenso delle ginestre salivano dal mare verso la collina di Costantinopoli e San Donato. Si andava incontro ad un'altra estate piena di speranze legate quasi esclusivamente alla pesca. La piccola pesca viveva il suo momento culminante. I giorni che arrivavano erano i più importanti, quelli sognati durante tutto l'anno, i più lunghi; erano il motivo per cui stavano insieme, il motivo per cui litigavano, si misuravano, che si era si sfidavano mettendosi ogni giorno in concorrenza fra loro. Si aiutavano a vivere quelle sensazioni forti e profondamente sentite che impedivano loro, come il paraocchi dei cavalli, di vedere il resto del mondo che intanto cambiava in fretta senza riuscire minimamente a coinvolgerli.
Il crepitio delle canne che andavano in mare con regolarità aritmetica, il salto dei cefali che finivano nella rete, il sincronismo delle vogate, il tempismo negli ordini di pesca, l'armonia sonora delle parole "tondo tondo", lanciate contro quei cefali che rappresentavano gli avversari di sempre, erano come la scelta dell'esca giusta nella pesca degli ami, come la sintonia da mantenere nella .vogata nella pesca della nicossa, era come il tipo di rezzaglio da usare secondo la giornata o il tipo di pesce da catturare, era come dare fondo sul posto migliore, l'ancora su cui articolare la calata della sciabica della papalina, era come accaparrarsi il miglior posto per calare le reti da seppia, era come avere in silenzio il miglior tritolo per la pesca con le bombe, era come avere a disposizione la migliore mortella da mettere nelle nasse per la pesca delle seppie.

Queste erano soddisfazioni impagabili. Intanto erano arrivati altri pescherecci da porto San Giorgio e da Bisceglie, ma loro non li vedevano. Nascevano anche altre attività : il Genio Civile con la ricostruzione del porto, la dogana con i Comuni che si rianimavano, la ferrovia con la risistemazione della galleria, tutte cose avulse dalle loro attenzione. Adesso il mondo girava intorno alla cannizzata e loro se ne sentivano il motore principale. Andavano a pesca ogni giorno, comprese le domeniche ed ogni giorno vivevano intensamente le loro agognate soddisfazioni. I soldi che stavano guadagnando facevano loro dimenticare i momenti difficili vissuti nell'inverno, le reti perse con le mareggiate, le riparazioni delle barche, le fatiche esasperate e le delusioni delle giornate difficili, ma quegli stessi soldi non sarebbero stati sufficienti per ricomprare le reti, per pagare gli affitti, per saldare i conti della cantina di donna Grazia o per la spesa a za' Rosaria. Adesso pescavano tutti i giorni e questo lì appagava.
Anche la pesca della cannizzata però non sarebbe durata in eterno e il mare calmissimo e le giornate belle e calde sarebbero fra non molto finite.
Racconto tratto dal libro La mortella e la mentuccia. Storie di pesca e pescatori, di Carlo Boromeo (Edizioni Menabò, Ortona ISBN 978-88-95535-34-0).
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