La pesca della papalina

Qualcuno disse che sarebbe arrivato il gran freddo e fu proprio cosi. Seguì una decina di giorni veramente brutti, dapprima vento fortissimo da tramontana poi la neve e poi il freddo e la risacca.
Proprio in quei giorni si mettevano in moto due vecchi pescatori che avevano la barca un po’ più grande e la sciabica per pescare la papalina. La pesca della papalina (bianchetto o pesce a riso) cominciava generalmente dopo la mareggiata della luna di gennaio e c'era anche un detto locale che recitava'". La candelora, la sciabica fora".
La pesca della papalina si svolgeva più o meno all'imboccatura del porto, precisamente a ridosso della testata del molo dei Saraceni, dove la risacca del mare da nord era più dolce e dove i pesciolini appena nati si riposavano formando dei gruppi enormi. Tommaso e Mezzoculo erano due di quelli che avevano la sciabica che era una rete molto grande, in gran parte con maglie sottilissime capaci di trattenere i minuti pesciolini. La barca usata per questa occasione era molto grande rispetto a quella di Antonio, Domenico e Nasosecco.
Erano barche che stavano tirate a secco quasi tutto l'anno e che avevano superato indenni gli eventi bellici ed erano peraltro le stesse che venti o

trent'anni prima venivano usate per andare a pesca al Pelago; adesso avevano bisogno di manutenzioni quasi continue ed i loro proprietari, non più giovani, le facevano con una certa patetica continuità. Quando Tommaso era in America, suo padre, zio Filippo il sordo, con quella barca andava con gli ami a pesca al Pelago, ovvero a circa venti miglia dalla costa. Portava con sé una ciurma di persone, andavano con tre pariglie di remi e, mentre due si riposavano, quattro vogavano, senza sosta.
Partivano alla mattina, vogavano tutto il giorno, scendevano gli ami la sera, all'alba del giorno seguente salpavano e tornavano al porto nel pomeriggio portando generalmente tantissimo pesce e tutto di grande taglia. Queste barche costruite ai primi del '900 erano tutte di ottima fattezza, quasi completamente di quercia e olmo, avevano resistito ad eventi di forte entità ed al tempo inesorabile.

Venivano usate ormai solo per la papalina, perché sei persone, tante erano quelle necessarie per tirare la sciabica, vi potevano operare agevolmente. Erano lunghe circa sei o sette metri, avevano due bancali, la chiglia molto forte con due rinforzi laterali che consentivano di tirarle a secco agevolmente. Erano funzionali perché avevano la poppa e la prua molto ampie. Tommaso non andava in mare e la barca quindi era condotta dai due figli. Con Antonio e Domenico imbarcarono anche Benito, Antonio Tollo, Lorenzo e Ettore.
Quella volta uscirono al mattino presto. La rete era stata posta sulla poppa ed in parte sulla vicina panca posteriore. Bisognava arrivare per primi nella zona di pesca perché la stessa non era troppo vasta e quindi prendere le posizioni giuste era importante, vuoi per la corrente, vuoi per il mare che non erano mai uguali. Finiva, come al solito, per essere una competizione, perché si partiva dall'ormeggio quasi insieme e vogare meglio spesso significava arrivare primi.
La barca di Tommaso era leggermente più leggera, la carena era pulita, e Ettore e Antonio, Benito e Domenico erano giovani e capaci di imprimere alla barca un andamento veloce. Una volta sul posto si portarono un po' sopravento, scesero l'ancora di testata e cominciarono a scendere la sciabica. Antonio faceva il capobarca e indicò come scendere e fece in modo che la rete formasse un grande ferro di cavallo per poi tornare sul primo segnale.
Era la corrente stessa che manteneva la rete in tiro. La barca fu legata al primo corpo morto in modo da dare il fianco alla grande ansa che la rete aveva formato. Quindi cominciarono a tirare riempiendo contemporaneamente le due pareti. Era questa una operazione molto pesante resa durissima dall'acqua e dal freddo. Lesandro e Antonio Tol1o governavano e tiravano le corde dei fianchi con armonia facendo in modo che il sacco rimanesse sempre gonfio.
Domenico e Benito tiravano la corda dei galleggianti di destra e Antonio ed Ettore quella di sinistra; ci impiegarono circa quaranta minuti a tirare tutta la rete che, mano a mano che il pesce si addensava nel cocollo sottile, diventava più pesante perché era restia a scaricare l'acqua. Quando il cocollo si presento sotto la murata videro che la papalina era abbastanza ed insieme con grande sforzo sollevarono il tutto e lo imbarcarono sul paiolato. Antonio e Domenico fecero scorrere il pescato lungo il fianco del cocollo fino a farlo cadere nel primo cassone di legname che avevano a bordo.

La bontà della pescata a quel punto era dovuta alla purezza del prodotto, ovvero a quanti altri pesci o alghe erano presenti con la papalina. Antonio se ne portò un pizzico in bocca, poi prese un'altra cassa e la mise a fianco della prima; prese delle argentine e degli altri pesciolini che erano fra la papalina e li buttò nella seconda cassetta che aveva preparato.
Era questa forse l'operazione più faticosa, veniva fatta con le mani nude e doveva essere fatta con precisione per non portarsi dietro neanche un po' di papalina. Qualche volta la papalina era abbastanza pulita, c'era solo un po' di posidonia e non più di trecento grammi tra argentine totanetti e calamaretti su una mezza cassetta di papalina bianca e grandicella.
L’operazione di scendere la sciabica veniva ripetuta più volte e, siccome era andata bene la prima mano, Antonio decise di non cambiare di molto la posizione e quindi diede di nuovo fondo più o meno nella stessa posizione. Mentre veniva scesa la rete per la seconda mano, Lesandro e Ettore con la sessa buttavano via l'acqua dalla sentina, mentre Domenico continuava a pulire la cassetta che era stata posta sulla poppa. Erano coperti bene, avevano anche gli stivaloni fino all'inguine che finivano sotto un'ampia mantiera di cerata, maglione e giubbotto militare, ma il freddo si faceva sentire ugualmente con forza. La seconda mano andò quasi come la prima, c'era solo qualche alga in più, perciò la terza decisero di farla un po' più sopravento. Ebbero ragione perché alla terza presero più papalina e quasi nessuna alga; c'erano solo in più un po' di sarachette che non fu difficile separare. Mentre riscendevano le reti, Lesandro e Benito si mangiarono il panino che avevano portato, passandosi fra loro la bottiglia del vino rosso. Domenico aveva le mani bagnate, ma questo non gli impediva di fumare la sigaretta trattenendola fra le labbra e parlando contemporaneamente.

Decisero di fare un'altra mano più vicina alla diga del molo sud dove c'era un po'più di ridosso; la cosa andò molto bene e, anche se la papalina era più sporca, la quantità era quasi il doppio. Questa volta dovettero lavorare un po' di più perché c'erano molti totanetti e gamberi. Anche gli altri mangiarono qualcosa, poi manovrando per la mano successiva passarono a fianco alla barca di Mezzoculo e chiesero come stava andando e se volevano un po' di vino, risposero subito che stavano bene e che il vino ce l'avevano. Dopo che San Tommaso suonò mezzogiorno, fecero ancora due mani e sfiniti ripresero a vogare per tornare all'ormeggio.
Arrivarono quasi in contemporanea con l'altra barca, avevano quattro casse di papalina e uno di misto frittura. L’altra ciurma ne portò mezza cassa in più ma non era molto pulita per via delle alghe che rimanevano fra la papalina. A terra ad attenderli, come al solito, quella piccola folla vociante, alcuni pescivendoli e persone normali con il fazzoletto in tasca. Si, proprio il fazzoletto: questo il modo per chiedere un po’ di papalina che veniva posto nel fazzoletto tenuto da quattro pizzi.
Tommaso si avvicinò, salì sulla barca, guardò la rete, criticò il modo in cui stava posta, si avvicinò alle casse, le guardò una ad una, prese una ricca manciata di papalina, poi una di frittura che mise nel suo bugliolo metallico e tornò a riva avviandosi verso casa. La papalina era un pesce molto apprezzato e quindi molti lo attendevano con piacere. C’erano, oltre ai pescivendoli, alcuni che se la procuravano alla piazzetta del pesce, altri che la prendevano dagli ambulanti e altri ancora che dal mattino vedevano dall’Oriente che erano uscite le barche della papalina e appena le vedevano rientrare si fiondavano, scendevano a comprarla all’ormeggio.

I cassoni pieni di papalina erano belli da vedere: avevano un colore che assomigliava alla pasta di cocco che vendevano durante le feste rionali. Pesavano oltre venti chili ciascuna e venivano vendute bene perché nei tempi migliori spuntavano anche cinquanta lire al chilo. Il guadagno poi veniva diviso secondo i carati considerando la barca, la rete, il capobarca e la ciurma. Era ovvio che bisognava pescava pescare abbastanza affinché la parte spettante al marinaio potesse remunerare una giornata tanto faticosa e pesante.
La papalina o pesce a riso veniva preparata in diversi modi, ma i più comuni erano: il crudo, con l’olio d’oliva peperoncino trito e limone, le frittelle che venivano preparate con poca farina e uova fresche che nel periodo abbondavano, e il timballo sotto il coppo; usavano anche preparare il brodetto in bianco. Per quest’ultimo tipo di cucina il pesce a riso veniva posto in un fazzoletto o in un tovagliolo e poi, tenendolo per i quattro pizzi, veniva battuto sulla pietra del lavandino perché così facendo si rompevano le orbite degli occhi, evitando di sentirle scricchiolare quando le si mangiava.
Il brodetto si faceva molto semplicemente facendo andare in una teglia di terracotta poco sale, poca acqua, olio, due spicchi di aglio interi, il solito pezzetto di peperone secco (quello fresco ovviamente non era disponibile), due rametti di prezzemolo e poi si lasciava andare portando a bollire il tutto; in questo momento si mettevano non più di cinquanta grammi di papalina a testa, insieme a un paio di cucchiai di peperone trito rosso.

Non più di due minuti dopo, il tutto era pronto per essere poggiato nel piatto dove spesso veniva sistemato un pezzo di pane raffermo: una antica prelibatezza. Per prepararlo sotto il coppo si preparava una semplice pastella di acqua, farina, aglio prezzemolo e uova, si impastava con la papalina che poi veniva posta in una teglia di alluminio nella quale era stato sistemato uno strato di fettine di patate su cui veniva versato il solito velo di olio e di sale, poi si metteva una corona di fettine di patate anche sul bordo laterale della teglia, si versava la papalina preparata e si ricopriva ancora di uno strato di patate, si poneva la teglia sulla brace lateralmente al fuoco, si copriva con il coppo, il coppo con cenere e carbonella.
Bastava muovere la teglia per tre o quattro volte e dopo meno di quindici minuti, il timballo era pronto.
Fecero quel tipo di pesca per diversi giorni, poi il vento di scirocco non lo consenti più perché i pesciolini non si addensavano più a ridosso del molo Saraceni e quindi diventava impossibile trovarli raggruppati.
Mano a mano che la pesca si alleggeriva per cause meteorologiche, le divergenze fra Antonio e Domenico riaffioravano, ciascuno voleva pescare in modo diverso, in posti diversi e con tecniche più o meno variate. Pensarono che sarebbe stato meglio che la rete l'adoperassero un giorno ciascuno e ciascuno con la propria ciurma, pur sapendo che non sarebbe stata la stessa cosa perché a giornate diverse corrispondevano, normalmente, pescate diverse, e poi solo una ciurma lavorava mentre l'altra sarebbe rimasta ferma. Non trovarono niente di meglio che andare a prospettare a Tommaso, con determinazione, l'assurda soluzione.

Tommaso fu sconvolto, non batté ciglio, non proferì parola, lì pregò solo di riportare davanti al magazzino le reti perché, approfittando di quei giorni in cui sarebbero stati forzatamente fermi, lui le avrebbe rimesse a posto e avrebbe trovato la soluzione. Quella soluzione gli era venuta immediatamente in mente e per attuarla non attese neanche un minuto. Non appena vide che la rete era stata sistemata davanti al magazzino, la stese, prese il suo coltello a serramanico che era come una forbice per la sua mano, e recise la rete divedendola esattamente a metà attraverso il cocollo e ne fece ancora due mucchi.
Domenico fu il primo ad arrivare ed a lui Tommaso prontamente disse che la sua sciabica era quella vicino alla porta, quella di suo fratello l’altra; abbassò la testa e si rimise a sbucciare l’arancia che aveva tra le mani. Domenico se ne andò senza parlare e non disse nulla neanche al fratello che apprese del fatto quando a sua volta andò con Antonio Tollo a casa per prendere un’ancora più grande da portare alla barca.
La voce prontamente si sparse per tutta la Marina, ognuno aveva il proprio modo di leggere il fatto ritenendo più o meno giusto il comportamento di Tommaso. Ma i fatti non cambiarono. La pesca della papalina per quell’anno per loro era finita. Superarono il periodo di carnevale pescando come al solito con le loro barche le reti a galla e quelle di fondo; mangiarono qualcosa ma ben poco

I pochi soldi rimasti e quelli ricavati dalla vendita del pescato furono impegnati tutti per la preparazione della cannizzata.
Racconto tratto dal libro La mortella e la mentuccia. Storie di pesca e pescatori, di Carlo Boromeo (Edizioni Menabò, Ortona ISBN 978-88-95535-34-0).
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